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Infografica: rapporto The Greenwashing Hydra dell’organizzazione inglese non profit Planet Tracker.

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Greenwashing: il morso del serpente che ferisce anche il bio

Su Food di gennaio le risposte di Bio Bank sulle pratiche più diffuse di greenwashing e sul ruolo del bio nella Gdo

di Rosa Maria Bertino – 12 gennaio 2025

Il greenwashing aziendale, come il serpente mitologico dalle molte teste, avvelena la comunicazione e mina la trasparenza. Basta leggere l'illuminante rapporto The Greenwashing Hydra dell’organizzazione inglese non profit Planet Tracker, per capire come questa "postura aziendale" sia un metodo di "distrazione di massa". Ovvero l'azienda si atteggia come attenta all'ambiente, quando in realtà il suo modello economico e la sua attività lo danneggiano. Tutte queste pratiche, frenano nei fatti le pratiche sostenibili e feriscono enormemente chi fa della sostenibilità il suo pane quotidiano, come gli operatori del biologico a ogni latitudine.
Abbiamo approfondito le molte sfumature del greenwashing e il ruolo del bio nella Gdo su Food di gennaio. Ecco le risposte che abbiamo dato alle domande della giornalista Paola Oriunno.


Cresce il biologico nella GDO e aumentano i prodotti e le linee Mdd bio nei supermercati. Il settore esce dalle catene specializzate e non è più considerato una "nicchia”. La crescita dell’offerta nei supermercati contribuisce ad aumentare la fiducia dei consumatori verso il bio?

La Gdo ha avuto un ruolo determinante nella diffusione dei prodotti biologici presso un pubblico più ampio, che difficilmente sarebbe entrato in un negozio specializzato. Ma soprattutto è stata la Gdo, e sempre di più con la propria marca bio, a trainare le vendite bio negli ultimi dieci anni, come emerge dal Focus Bio Bank – Supermercati & Specializzati 2024. Quindi i consumatori si sono fidati, eccome. 
Vediamo i numeri:
✔ Nel 2014 è avvenuto lo storico sorpasso di vendite bio nei supermercati rispetto agli specializzati (855 milioni di euro contro 761).
✔ Nel 2023 le vendite bio nella Gdo hanno raggiunto 2,4 miliardi di euro, con una crescita del 186% rispetto al 2104 e continuativa dal 2007; nei negozi specializzati le vendite sono arrivate invece a 957 milioni di euro, con un incremento del 26% rispetto al 2104, tornando però sotto il livello del 2012, con un trend altalenante.
✔ In dieci anni la quota di vendite bio nei supermercati sul totale retail è salita dal 40 al 58%, mentre nei negozi specializzati è scesa dal 36 al 23%.
✔ Le referenze di alimenti bio con la marca del distributore (Mdd) sono oltre 6mila nel 2023, con una crescita del 186% rispetto al 2104, nelle 24 catene censite da Bio Bank nel 2023 tra supermercati e discount, compresa una catena di drugstore.
Ma c’è ancora tanta strada da fare in Italia, se le vendite bio sono ancora il 3,5% sul totale delle vendite alimentari.

Per un marchio, entrare in un supermercato non è facile. I buyer della Gdo fanno attenzione anche ai messaggi di greenwashing nella scelta dei brand? Cosa valutano nella scelta di un marchio bio? Certificazioni, packaging…

Entrare in Gdo con la propria marca bio è sempre più sfidante, soprattutto per le piccole e medie aziende. Servono quindi molti ingredienti: un progetto credibile, la capacità di valorizzare gli elementi distintivi dell’azienda, la conoscenza del mercato, della concorrenza e delle diverse catene distributive, come abbiamo approfondito nell'articolo 10 tappe per entrare in Gdo con la propria marca bio. Le certificazioni, che si aggiungono a quella bio, sono senz’altro importanti, così come essere trasparenti e coerenti tra ciò che si afferma e ciò che si fa, contro ogni forma di greenwashing. Ma sopra ogni cosa occorre saper comunicare il valore del prodotto attraverso il packaging, perché passi dallo scaffale al carrello. Purtroppo il dialogo con i buyer è spesso focalizzato sul prezzo, che è senz’altro elemento chiave, ma non può essere l’unico. Soprattutto per i prodotti bio, che meritano un approccio ben più ampio, per l’intrinseco valore ambientale e salutistico, che proiettano positivamente sull’immagine della catena.

Greenlabelling, greenlighting, greenhushing…. Il greenwashing si declina in tanti modi e si fa sempre più insidioso. Per difendersi è necessario orientarsi tra i diversi termini che lo caratterizzano. Quali sono, secondo lei, quelli più diffusi e quelli più insidiosi per il mondo del bio in Italia?

Il greenwashing si è sviluppato a partire dagli anni Novanta, con l’avanzata del degrado ambientale e la parallela crescita della sensibilità ambientale da parte dei consumatori. Il termine greenwashing è attribuito all'ambientalista americano Jay Westerveld. Lo utilizzò per la prima volta nel 1986, criticando gli avvisi nelle camere degli hotel con l'invito a riutilizzare gli asciugamani per salvare l'ambiente. Un mero espediente per ridurre i costi di lavanderia, data la totale assenza di altre azioni sostenibili all’interno delle strutture ricettive.

Sul rapporto The Greenwashing Hydra questa pratica commerciale ingannevole è stata visualizzata come l’Idra, il mitologico serpente d’acqua dalle molte teste, identificando sei declinazioni principali di greenwashing. 
Tutte queste forme di  greenwashing avvelenano la comunicazione e minano la trasparenza. Come cambierebbe la percezione dei consumatori se le aziende bio fossero così brave a comunicare i propri valori ambientali e salutistici come altre lo sono a distrarre dalla loro assenza?

Greenlabelling, dichiararsi sostenibili senza esserlo
Letteralmente "etichettatura verde”, è sicuramente la forma più diffusa e temibile di greenwashing, insidiosa anche per il bio, dove la sostenibilità si ferma alle parole o viene ingigantita dalle parole. La nuova direttiva europea 2024/825 contro il greenwashing riuscirà ad essere punto di svolta? Gli Stati membri dovranno recepirla entro il 2026.
Greenlighting, puntare il faro in una sola direzione
Letteralmente "illuminazione verde”, è un’altra forma molto utilizzata e insidiosa di greenwashing, dove l’azienda punta il faro nell'unica azione sostenibile, lasciando al buio il reale impatto della sua attività.
Greencrowding, nascondersi tra la folla
Adottato da diversi gruppi che vantano grandi numeri, non lascia trasparire il reale impegno delle singole organizzazioni.
Greenshifting, colpevolizzare il consumatore
L'azienda scarica la responsabilità del cambiamento sulle buone pratiche del singolo, sfilandosi dalle proprie di ben altra portata e impatto.
Greenrinsing, modificare le regolo durante il gioco
Una pratica molto comoda per chi non riesce a raggiungere gli obiettivi promessi, modificandoli anche più di una volta.
Greenhushing, comunicare poco il vero livello di sostenibilità
Una strategia molto sofisticata, che dando poche informazioni e con poco risalto, punta a una sopravvalutazione di sostenibilità da parte di media e investitori.

Etichette fuorvianti o ammiccanti come ‘prodotto green, ecofriendly, 100% naturale’ a volte creano confusione e raccontano molto poco dei valori dell’azienda. Come inquadra il greenlabelling? Come si può contrastare?

Il greenlabelling, è un fenomeno diffuso e particolarmente grave perché parla in modo ambiguo, millanta o mente, attraverso l’etichetta dei prodotti, che è frontiera comunicativa tra aziende e consumatori. Il principale rischio è la perdita di fiducia dei consumatori e il conseguente danno alla reputazione aziendale. Solo la trasparenza paga nel lungo periodo, con una comunicazione efficace, corretta, veritiera e soprattutto verificabile.
Per contrastare il greenwashing bisogna prima riconoscere i suoi sette peccati capitali, così come li ha definiti l’organizzazione canadese TerraChoice:
✔ Peccato di omessa informazione (hidden trade-off)
✔ Peccato di mancanza di prove (no proof)
✔ Peccato di vaghezza (vagueness)
✔ Peccato delle etichette false (worshiping of false labels)
✔ Peccato di irrilevanza (irrelevance)
✔ Peccato del minore dei due mali (lesser of two evils)
✔ Peccato di dichiarare il falso (fibbing).

In ambito agroalimentare è incredibile come sia esplosa la narrazione sostenibile, con prodotti assolutamente convenzionali, che tentano il sorpasso del bio solo nell’ambito della comunicazione con affermazioni come agricoltura sostenibile, coltivato nel rispetto dell’ambiente, 100% naturale…
Mentre l’agricoltura biologica è l’unica forma di agricoltura realmente sostenibile per l'ambiente e la salute umana, perché vieta l’utilizzo di pesticidi e concimi di sintesi, favorisce la fertilità del suolo, protegge le acque, tutela la biodiversità e mantiene un ecosistema sano. Ed è l’unica regolamentata a livello europeo e nazionale, con un sistema di controllo attuato da organismi di controllo privati riconosciuti e autorizzati dal ministero dell’Agricoltura.

L’Italia è leader nell’esportazione del bio in Europa. Pensa che all’estero ci sia una sensibilità e un’attenzione diversa da parte di aziende e consumatori e maggiore trasparenza nella comunicazione?

L’Italia è prima in Europa non solo per l’export, ma anche per numero di trasformatori, oltre 23mila aziende, pari al 26% del totale. Due primati strettamente correlati. Il made in Italy bio ha un’ottima reputazione ed è molto apprezzato in Europa e nel mondo.
Sicuramente il Nord Europa ha maggiore sensibilità ambientale e storicamente consumi più elevati di alimenti biologici. In Danimarca e Austria i consumi bio rappresentano il 12% delle vendite alimentari, in Svezia l’11%, in Germania e Francia oltre il 6%. Ma il fenomeno del greenwashing è non solo europeo, ma mondiale e trasversale, poiché tocca tutti i settori economici.

Quanto contano e quanto aiutano le certificazioni e la pubblicazione dei bilanci di sostenibilità nel dimostrare l’impegno di un’azienda verso le tematiche ambientali, attrarre investitori e sostenere l’eticità del proprio business?

Le certificazioni sono importanti e sono sicuramente rilevanti sul mercato. La prima cosa da cercare per capire se un alimento è biologico, quindi veramente sostenibile, è l’eurofoglia, il marchio unico europeo del biologico. Certificazioni aggiuntive, come quella biodinamica, aprono poi ulteriori opportunità sui mercati esteri.
Mentre nella cosmesi per i consumatori è davvero difficile districarsi tra prodotti pseudonaturali, con quantitativi esigui di ingredienti biologici, e prodotti realmente biologici. Nell’interminabile attesa di una certezza normativa in ambito europeo, oltre 500 aziende in Italia hanno scelto la certificazione volontaria, sulla base di standard privati o internazionali, certificati da organismi di controllo accreditati.
Per quanto riguarda il bilancio di sostenibilità, può essere una leva strategica per l’azienda se utilizzato come strumento di gestione, pianificazione e comunicazione del proprio impatto ambientale, sociale ed economico. Quindi se è redatto con informazioni veritiere, affidabili, chiare, complete, accurate e soprattutto comparabili tra imprese e nel tempo. E se valuta anno dopo anno gli obiettivi raggiunti rispetto a quelli prefissati. Obiettivi che devono essere specifici, misurabili, raggiungibili, rilevanti e con una scadenza temporale. Insomma o è uno strumento di consapevolezza e crescita per l’azienda stessa verso la sostenibilità e la responsabilità sociale, oppure il rischio greenwashing è di nuovo dietro l’angolo.

Cresce il greenbickerin: un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale laddove ritenga utilizzi impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare il suo percepito verso il mercato e i consumatori per vendere di più. Questo fenomeno può danneggiare in generale l’immagine del settore?

Secondo gli esperti legali in materia di sostenibilità il greenbickerin, ovvero il "battibecco verde”, è senz’altro uno degli scenari emergenti. Ma la conflittualità tra aziende non fa certo bene al rapporto con i consumatori, tanto più nel biologico.
Nel caso delle aziende bio è senz’altro più produttivo investire tempo e risorse nella comunicazione positiva dei propri valori ambientali e salutistici, diventando attrattive per il mercato, piuttosto che avere ragione nelle aule dei tribunali sulla comunicazione ingannevole dei concorrenti. Compito che  sarebbe più appropriato demandare alle associazioni del settore. Perché si tratta di tutelare l’immagine dell’intero comparto agroalimentare bio, non quella di una singola azienda.

Il greenshifting si verifica quando c’è una "colpevolizzazione” del consumatore, sul quale viene di fatto scaricata la responsabilità puntando sui consumi del singolo o sulle buone pratiche che può intraprendere. Quanto è diffusa questa pratica?

Non credo che il greenshifting, lo "spostamento verde”, tocchi in modo particolare l’agroalimentare. Secondo Planet Tracker è una delle pratiche di greenwashing più facili da identificare, quindi con un rapido effetto boomerang. L’esempio portato è quello di una compagnia petrolifera multinazionale che ha chiesto alle persone: cosa sei disposto a fare per ridurre le emissioni di carbonio nel mondo? La risposta non si è fatta attendere, tramite la voce di una deputata degli Stati Uniti che ha stigmatizzato la sfrontatezza di tale comunicazione.

La nuova direttiva EU chiamata "Green Claims" chiede alle aziende prove scientifiche che dimostrino la veridicità di quanto dichiarato dal punto di vista della sostenibilità del prodotto e prevede multe per chi bara. Pensa che norme più severe e multe siano un valido strumento per tutelare la credibilità di aziende realmente sostenibili e penalizzare le altre?

Uno studio del 2020 della Commissione europea aveva rilevato dati allarmanti sul fenomeno:
✔ Il 53% dei green claims fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate.
✔ Il 40% dei green claims non ha prove a supporto.
✔ La metà di tutte le etichette verdi offre una verifica debole o inesistente.
✔ Ci sono 230 etichette di sostenibilità e 100 etichette di energia verde nell’Unione europea, con livelli di trasparenza molto diversi.

È quindi senz’altro positivo che l’Unione europea ponga un argine legislativo al dilagare del greenwashing. Èd è certo utile che sia affiancato da un sistema sanzionatorio. Ma, come sempre accade, non bastano leggi e sanzioni per innescare il cambiamento, che è soprattutto culturale. La reputazione aziendale è un bene tanto prezioso quanto delicato. Le aziende che si impegnano realmente nel migliorare la propria sostenibilità saranno premiate dai consumatori, potranno incrementare le vendite, saranno valutate positivamente anche dai mercati finanziari, innescando un circolo virtuoso: quello dell’autenticità.


Scopri di più su Food di gennaio 2025

Scarica l’articolo di Paola Oriunno su Food di gennaio 2025